“L’oceano è il nostro universo”
“Tutto succede in mare. Non siamo legati a nessuna terra in particolare. Ovunque andiamo, lo facciamo con le nostre barche.”
Hook Suriyan Katale, un uomo Moken delle isole Surin.
I Moken sono un popolo austronesiano semi-nomade. Vivono nell’arcipelago di Mergui, un gruppo di circa 800 isole nel mare delle Andamane, rivendicato sia dalla Birmania sia dalla Tailandia.
Si pensa che i Moken siano emigrati in Tailandia, Birmania e Malesia dalla Cina meridionale circa 4.000 anni fa. Tradizionalmente trascorrevano la maggior parte dell’anno su imbarcazioni di legno costruite a mano chiamate kabang, spostandosi tra le isole in piccole flotte a seconda delle necessità: il sostentamento, i venti, la sicurezza e le malattie. Sino ad oggi, hanno sempre rifiutato il possesso di beni materiali e la tecnologia proveniente dall’esterno.
Da maggio a ottobre, quando il monsone sud-occidentale porta piogge intense e mareggiate, trascorrevano molto tempo su palafitte temporanee costruite nel versante orientale delle isole, al riparo dalle tempeste – e le famiglie semi-nomadi continuano a farlo ancora oggi.
Il loro stile di vita non riconosce i confini nazionali e oggi è gravemente minacciato. Nonostante siano un popolo pacifico, sono stati spesso perseguitati dai governi birmano e tailandese che, preoccupati per il loro nomadismo transnazionale, hanno cercato di sedentarizzarli permanentemente all’interno dei parchi nazionali.
Negli ultimi anni, il numero delle famiglie semi-nomadi è diminuito a causa di interventi politici e regolamentazioni del dopo-tsunami. Le compagnie trivellano petrolio al largo mentre i governi riducono sempre più i loro territori per promuovere lo sviluppo del turismo e della pesca industriale. “Le grandi imbarcazioni arrivano e si prendono tutto il pesce. Cosa faranno quando avranno svuotato l’intero oceano?” ha dichiarato Hook Suriyan Katale al produttore cinematografico Runar J. Wiik, che ha istituito il sito internet Moken Projects per denunciare la situazione. Molti Moken sopravvivono oggi in “villaggi” stanziali fatti di capanne di bambù, vendendo souvenir o lavorando come barcaioli, giardinieri e spazzini per l’industria del turismo.
Un piccolo numero di famiglie continua tuttavia a navigare sulle kabang nelle acque turchesi dell’arcipelago di Mergui per sette o otto mesi all’anno. “L’oceano è tutto il nostro universo” sostiene Hook Suriyan Katale.
L’acclamato fotografo Cat Vinton ha trascorso sei settimane con una famiglia semi-nomade nelle isole Surin. Ritratti nelle sue foto sono il padre Pe Tat, la madre Sabi e i loro figli.
© Cat Vinton/Survival
La kabang di Pe Tat, che è aperta su entrambi i lati, è ormeggiata vicino agli scogli di granito delle Isole Surin.
La kabang tradizionale dei Moken è fatta di legno, canne di bambù e funi di rattan. Lo scafo è scavato, la poppa biforcuta e il tetto ricoperto di foglie di palma essicate. Tra i pochi alberi adatti alla costruzione delle kabang c’è il rakam (salacca), una palma fibrosa che si dilata quando è bagnata. Le foglie di pandanus raccolte nella foresta servono a intrecciare stuoie, cesti e scatole.
Secondo la leggenda della creazione dei Moken raccontata dall’antropologo Jacques Ivanoff, una regina dell’isola ancestrale, Sibian, decretò che la kabang rappresentasse il corpo umano, con la bocca che mangia (okang makan_) in prua e il retro che defeca in poppa (_butut mae).
© Cat Vinton/Survival
Pe Tat costruisce un nuovo tetto di foglie di palma per la kabang della sua famiglia. Prima di tagliare l’albero si chiede il permesso degli spiriti.
Un proverbio moken cita: “Se il vostro giovane uomo è in grado di costruire una barca, fare i remi o le vele, se sa come usare l’asta per arpionare le tartarughe, allora gli darò mia figlia. Altrimenti non la lascerò mai andare via”.
(Proverbio moken, per gentile concessione di Jacques Ivanoff)
© Cat Vinton/Survival
Insegnare la saggezza tradizionale ai figli garantisce il mantenimento del loro stile di vita.
Le pressioni dall’esterno, tuttavia, stanno rendendo sempre più difficile trasmettere secoli di rituali e abilità.
“Questa generazione non sa più come costruire le kabang” commenta Hook Suriyan Katale. “Oggi, a conoscere l’antica tecnica sono rimaste solo due o tre persone”.
Nei parchi nazionali sono state introdotte anche restrizioni sulla raccolta del legno.
© Cat Vinton/Survival
La straordinaria conoscenza che i Moken hanno del mare, dei venti e delle fasi lunari non è mai stata scritta. La loro è una storia tutta orale ricca di miti, leggende e canti; i bambini imparano a “leggere” la natura attraverso l’osservazione e l’esperienza.
Un mito racconta della la-boon, ovvero “l’onda che mangia la gente” invocata dagli spiriti ancestrali quando sono in collera. La leggenda vuole che appena prima dell’arrivo della la-boon il mare si ritiri.
Nel dicembre 2004, quando il mare si ritirò prima dello tsunami lasciando le kabang incagliate sulla barriera corallina, gli anziani di un villaggio moken della Tailandia riconobbero i funesti presagi e condussero la loro comunità e i turisti in salvo sopra un’altura.
“I Moken vivono vicini alla natura” commenta Narumon Arunotai, un ricercatore della Chulalongkorn University a Bangkok. “Le loro vite dipendono e ruotano intorno a lei, pertanto hanno sviluppato un istinto acuto e vigile verso il pericolo. Abbiamo molto da imparare dalla loro saggezza e dalla loro conoscenza…”.
© Cat Vinton/Survival
Pe Tat brucia le alghe attaccate al fondo della kabang.
© Cat Vinton/Survival
Si pensa che i bambini Moken imparino a nuotare prima che a camminare.
Un recente studio scientifico condotto dalla Lund University in Svezia ha dimostrato che la vista dei bambini moken è del 50% più potente di quella dei bambini europei. Per centinaia di anni hanno sviluppato la straordinaria abilità di mettere a fuoco sott’acqua andando alla ricerca di cibo sul fondo del mare. “Utilizzano la vista al limite dell’umanamente possibile” ha dichiarato la biologa Anna Gislén.
Uno degli epici racconti dei Moken narra che “I Moken nascono, vivono e muoiono sulle loro barche, e i cordoni ombelicali dei loro figli si tuffano nel mare”.
© Cat Vinton/Survival
“Antenati, ascoltateci! I Moken stanno per uscire in mare ad arpionare il pesce” cita un racconto moken. “Aiutateci a tornare vincitori.”
I Moken mangiano pesce, dugonghi, cetrioli di mare e crostacei, che catturano con arpioni, lance e lenze a mano. Secondo Hook Suriyan Natale, l’uso di mezzi tanto sostenibili assicura che “in mare rimarrà sempre del pesce”.
Utilizzano anche delle reti per raccogliere frutti di mare sulle rocce affioranti e nella vegetazione dei bassifondi. Prima della pesca, i Moken fanno delle offerte spirituali in segno di rispetto, usando l’asta dello spirito, o lobong, che porta impressi i volti degli spiriti protettivi.
(racconto dei Moken, per gentile concessione di Jacques Ivanoff)
© Cat Vinton/Survival
I Moken sono navigatori e subacquei eccellenti. Pe Tat indossa occhialini fatti in casa con legno e plastica ricavata dai contenitori per l’acqua. Le lenti sono di vetro proveniente da cocci di bottiglie, incollate agli occhiali con la linfa degli alberi.
Le Isole Surin sono state dichiarate parco nazionale nel 1981, incrementando lo sviluppo dell’industria turistica. Ai Moken sono state imposte restrizioni sulla pesca e altre attività di sostentamento nonostante la sopravvivenza di molti di loro – persino quella delle famiglie “stanziali” – continui a dipendere largamente delle risorse della terra e del mare.
Mentre altre isole e aree costiere hanno sofferto per l’impatto degli insediamenti umani, la presenza dei Moken ha lasciato pressoché inalterate le isole Surin. Come molti popoli tribali, anche i Moken prendono dall’ambiente solo quello di cui hanno bisogno per vivere. Il loro nomadismo tradizionale e l’utilizzo alternato delle risorse impedisce lo sfruttamento eccessivo della foresta e del mare.
© Cat Vinton/Survival
Sabi cattura granchi, aragoste, anguille, ricci di mare e vongole nelle pozze delle rocce e nel fango, e cerca vermi della sabbia sulla battigia.
Una parte la consuma la sua famiglia, mentre il resto viene barattato o venduto insieme ad altre cose come cetrioli di mare essiccati, perle d’ostrica, gusci di tartaruga, nidi di uccelli commestibili e stuoie di pandanus. Tradizionalmente, questi beni vengono commerciati dai taukay (intermediari) in cambio di riso, olio da cucina, reti e altri beni di uso quotidiano.
© Cat Vinton/Survival
La famiglia di Pe Tat e Sabi dipende anche da prodotti della foresta come frutta, miele e patate dolci selvatiche. Per mangiare, curarsi, costruire e alimentare il fuoco utilizzano oltre 150 specie di piante differenti.
Durante il monsone, le famiglie moken che vivono ancora in modo tradizionale coltivano riso e miglio a terra, e cacciano selvaggina come cinghiali e piccoli cervi.
© Cat Vinton/Survival
Villaggio moken su una delle Isole Surin.
Il governo tailandese ha fatto costruire case per i Moken dopo che lo tsunami del 2004 aveva distrutto molte kabang. Oggi, nel villaggio sono rimaste poche kabang tradizionali; la maggior parte delle imbarcazioni sono quelle classiche tailandesi. Lo sviluppo promosso nel dopo-tsunami ha anche diminuito la possibilità dei Moken di accedere ad aree in cui un tempo pescavano liberamente.
I Moken dell’arcipelago delle Mergui affrontano molte minacce: dal razzismo (sono considerati come “arretrati” da molti tailandesi) all’assimilazione alla cultura della società dominante. Rischiano anche di essere feriti e arrestati dalle guardie di confine birmane. Alcuni sono diventati dipendenti dall’alcool introdotto dai turisti e la diffusione di beni di consumo li sta rendendo dipendenti da un’economia da reddito.
Per i popoli tribali come i Moken, spesso la separazione dagli ambienti ancestrali e dalle tradizioni ha conseguenze catastrofiche sulla salute fisica e mentale a lungo termine. “Le famiglie che vivono nei villaggi stanziali si sentono perse” racconta Pe Tat. “Non sanno cosa fare di se stessi perché la vita che hanno sempre conosciuto non esiste più. Si annoiano, e così si danno all’alcol.”
Secondo il ricercatore Narumon Arunotai, la dipendenza ha già ucciso molti uomini lasciando alle vedove “un maggior carico di responsabilità verso gli altri membri del nucleo familiare”.
© Cat Vinton/Survival
Pe Tat, Sabi e i loro figli cenano sulla loro kabang, al chiarore della luna piena del mare delle Andamane.
Sono una delle ultime famiglie semi-nomadi che continuano a solcare le acque profonde e trasparenti delle Isole Surin.
“I Moken sono come le tartarughe” dice Pe Tat. “Abbiamo sempre vissuto tra la terra e il mare. Questo è quello che sappiamo, che siamo e a cui apparteniamo.”
© Cat Vinton/Survival
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