“Siamo qui per i nostri figli”
In ogni continente, dalle verdi profondità del bacino amazzonico fino alle distese ghiacciate della tundra artica, le comunità tribali trasmettono ai loro bambini le abilità e i valori che hanno garantito la sopravvivenza dei loro popoli per generazioni.
Sono cresciuto come un cacciatore, dice Roy Sesana. Non so leggere i libri. Ma so come leggere la terra e gli animali. Tutti i nostri bambini sanno farlo.
I Boscimani sono gli abitanti originari dell’Africa meridionale. Nel corso di migliaia di anni, hanno sviluppato tecniche di caccia efficaci che hanno permesso loro di soddisfare tutti i bisogni della comunità senza distruggere l’ambiente circostante.
I bambini si allenano a cacciare ratti e piccoli uccelli con arco e frecce in miniatura e imparano a catturare le lepri e a fabbricare coperte con pelli d’antilope. Dai cinque anni in su, le bambine aiutano le madri a raccogliere piante, bacche e tuberi. Ai bambini insegnano a crescere coraggiosi e umili allo stesso tempo, ad ammirare la generosità e detestare l’egoismo.
Oggi, tuttavia, dopo gli sfratti forzati dai loro territori ancestrali, dalla Central Kalahari Game Reserve (CKGR), molti bambini boscimani vivono in squallidi campi di reinsediamento, da loro stessi descritti come “luoghi di morte”. Nei campi dilaga l’AIDS e l’impossibilità di praticare la caccia e celebrare gli antichi rituali ha alimentato depressione e alcolismo. Ci sentiamo come briciole di spazzatura gettate nel bidone dell’immondizia spiega un Boscimane.
Se ai Boscimani non sarà permesso di tornare al più presto a casa, i loro figli non erediteranno lo straordinario stile di vita dei loro bisnonni, bensì dipendenza, disperazione e cattiva salute. Un passo importante verso il loro completo ritorno alle terre ancestrali è stato compiuto di recente, quando alcuni Boscimani hanno potuto attingere nuovamente acqua dal pozzo di Mothomelo, sigillato dalle autorità nel 2002
Nella foto: ragazzi Boscimani.
© Lottie Davies/Survival
I Moken vivono nell’arcipelago di Mergui, nel mare delle Andamane.
Come altri bambini tribali, i giovani Moken imparano a “leggere” la natura attraverso l’esperienza e l’osservazione. Immergendosi sin da piccoli alla ricerca di cibo sul fondo del mare, hanno sviluppato la capacità unica di mettere a fuoco sott’acqua. “I Moken nascono, vivono e muoiono sulle loro barche, e il cordone ombelicale dei loro figli si tuffa nel mare” racconta un mito moken. Un altro suggerisce che i bambini Moken imparano a nuotare molto prima che a camminare.
Il numero dei Moken semi-nomadi è diminuito negli ultimi anni a causa delle disposizioni politiche del post-tsunami, a causa delle compagnie che effettuano prospezioni petrolifere al largo delle coste e dei governi che si spartiscono le loro terre per promuovere il turismo e la pesca industriale. Molti non hanno avuto altra scelta se non quella di stabilirsi in villaggi stanziali nell’entroterra. La perdita dei tradizionali stili di vita rende sempre più difficile per gli adulti trasmettere ai figli rituali e abilità secolari.
Questa generazione non sa più come costruire le barche, dice Hook Suriyan Katale, un uomo Moken delle isole Surin, parlando della “kabang”, la barca di legno dei Moken. Oggi sono rimaste solo tre o quattro persone a conoscere l’antica arte.
Nella foto: bambini Moken nelle isole Surin, Tailandia.
© Andrew Testa / www.andrewtesta.co.uk
In Etiopia, sotto un cielo plumbeo, tra i prati e gli alberi spinosi della Valle dell’Omo, un ragazzo della tribù dei Bodi trasporta la sua capra.
Le tribù che vivono lungo il tratto inferiore del fiume Omo hanno sviluppato tecniche agricole sofisticate, perfettamente adattate ai cicli naturali delle piene del fiume. Utilizzano il fertile humus che si deposita sulle rive quando le acque si ritirano per crescervi una grande varietà di colture. Le bambine aiutano a coltivare alimenti di base come sorgo, mais e zucche, mentre i maschi si occupano sin da piccoli del bestiame, e dedicano poemi alle loro mucche preferite.
Il fiume che garantisce loro la sopravvivenza è oggi minacciato da progetti di sviluppo varati dal governo, tra cui quella che potrebbe diventare la più alta diga idroelettrica dell’Africa, destinata a privare le tribù delle esondazioni che fanno crescere i loro raccolti.
La gente ha fame, ha detto un uomo della tribù dei Mursi. Non si sente cantare oggi. I bambini sono silenziosi.
Nella foto: un ragazzo Bodi, Etiopia. L’immagine è in vendita nel catalogo di Survival insieme ad altre fotografie del celebre Joey L.
© J
All’epoca mia madre mi portava sempre con sè nella foresta a pescare con il timbó e a cercare granchi e frutti selvatici racconta Davi Kopenawa, portavoce degli Yanomami del Brasile. È così che sono cresciuto.
I ragazzi yanomami imparano a “leggere” le orme degli animali, a usare la linfa delle piante come veleno e ad arrampicarsi sugli alberi legando insieme i piedi con liane di vite; le ragazze aiutano le madri a coltivare manioca negli orti, a trasportare acqua dai fiumi e a cucinare nello “yano” comunitario. A tutti i bambini insegnano che condividere è un principio fondamentale della vita sociale e le decisioni comunitarie sono prese per consenso.
Oggi, centinaia di cercatori d’oro stanno lavorando illegalmente nella terra yanomami, diffondendo la malaria e inquinando i fiumi e la foresta con il mercurio. Davi Kopenwa sta combattendo per i diritti del suo popolo; la sua speranza è quella che i bambini yanomami possano crescere immuni da malattie esterne, in una foresta libera dall’inquinamento industriale
Voglio che possano vedere le stelle, ma non attraverso lo smog industriale, ha dichiarato. Voglio che possano bere l’acqua dei torrenti senza rischiare di ammalarsi e che al mattino si risveglino col canto del piha invece che con il rumore delle pompe dei motori dei minatori.
Nella foto: ragazzo Yanomami.
© Claudia Andujar/Survival
La foresta pluviale del Sarawak è una delle più ricche in biodiversità di tutta la terra, ed è la dimora del popolo dei Penan.
I Penan hanno vissuto a lungo in armonia con la loro foresta e le sue orchidee rare, con i fiumi impetuosi e i fitti intrecci di grotte calcaree. Siamo nati per vivere nella foresta, dicono. E in effetti la foresta è la loro casa, la loro storia, il loro supermercato e la loro farmacia.
Dal 1970, tuttavia, le loro terre ancestrali sono state spianate dai bulldozer e date alle fiamme per aprire la via al disboscamento, alle piantagioni di palma da olio e alla costruzione di dighe idroelettriche. Le ripide valli che un tempo risuonavano del canto degli uccelli e del frinire delle cicale, oggi rimbombano per il rumore dei camion e degli alberi che cadono. Le foreste sono disboscate a un ritmo che è due volte più alto di quello dell’Amazzonia.
Lo stile di vita dei Penan è in erosione; fino agli anni ‘60 quasi tutti i Penan vivevano come nomadi, spostando frequentemente il campo in cerca di cinghiali, alberi da frutto e palme da sago. Oggi, molti dei 10-12.000 Penan sopravvissuti si sono stabiliti in comunità stanziali sulle rive dei fiumi dove la malnutrizione, le malattie e l’analfabetismo sono permanenti; tuttavia la foresta pluviale resta per loro di importanza vitale, sia che si tratti di comunità stanziali oppure di nomadi.
A meno che il governo malese non si decida a mettere un freno a tutti i progetti varati senza il consenso delle tribù, i figli dei Penan dovranno confrontarsi con un miserabile futuro.
Nella foto: una bambina Penan, Sarawak, Malesia.
© Andy Rain/Survival
Si muovono attraverso la foresta pluviale amazzonica di notte, portando con sé torce di resina. Sono il popolo degli Awá, una delle sole due tribù di cacciatori-raccoglitori nomadi rimaste in Brasile.
Oggi gli Awá sono sempre più minacciati dai taglialegna, dai coloni e dagli allevatori di bestiame. Le mappe satellitari mostrano che oltre il 30% della foresta pluviale che ammantava uno dei loro territori è stato distrutto.
Poiché dipendono ancora dalla foresta per ogni aspetto della loro vita – per il cibo, la casa e il benessere – il futuro dei loro figli è seriamente messo a rischio dalla distruzione delle loro terre natali. I taglialegna abbattono gli alberi e tutta la selvaggina scappa, ha denunciato un uomo Awá. Senza la foresta non siamo nessuno e non abbiamo possibilità di sopravvivere.
Nella foto: un bambino Awá-Guajá con la sua scimmietta, Brasile.
© Domenico Pugliese
Per i Guarani del Brasile, la terra è un dono prezioso del “grande padre” Ñande Ru.
Tuttavia, la deforestazione ininterrotta del Mato Grosso do Sul, nel Brasile meridionale, ha trasformato le loro terre ancestrali in aride distese senza alberi occupate da allevamenti di bestiame, campi di soia e piantagioni di canna da zucchero.
Oggi, molti Guarani vivono in condizioni spaventose in riserve sovraffollate o accampamenti di fortuna ai margini delle strade. Negli ultimi cento anni hanno perso quasi tutta la loro foresta e, non avendo sufficiente terra da coltivare, i loro figli soffrono di malnutrizione. Secondo un rapporto del 2008, nei soli cinque anni precedenti sono morti di fame almeno 80 bambini.
Molti bambini soffrono, ha detto un operatore sanitario guarani. Voglio che i bambini stiano come stavano prima, quando andava tutto bene. Ma i Guarani potranno ricominciare davvero a vivere solo quando il governo brasiliano avrà messo fine alla totale distruzione della loro terra.
Nella foto: bambini Guarani, Brasile.
© João Ripper/Survival
Il Canada nord-orientale è un’estensione di tundra, laghi e foreste subartiche. Fino alla seconda metà del XX secolo, gli Innu vi hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori, basando il loro sostentamento principalmente sulle mandrie di caribù che migrano attraverso la loro terra in primavera e autunno.
Negli anni ’50 e ’60, tuttavia, il governo canadese e la Chiesa Cattolica hanno ammassato gli Innu in comunità stanziali. Lo sfratto dal luogo che loro chiamano “Nitassinan”, la loro terra, ha determinato disoccupazione, problemi di salute cronica come il diabete, e livelli record di suicidi e inalazione di benzina tra i bambini.
Alla richiesta di descrivere come si cresce negli insediamenti, i giovani Innu rispondono sempre, invariabilmente: Ci fa vergognare di essere Innu.
Nella foto: bambini Innu, Davis Inlet, Canada.
© Dominick Tyler
Essere un Dongria Kondh significa vivere sulle montagne di Niyamgiri, nello stato indiano di Orissa. Ma la montagna che i Dongria venerano come un dio è minacciata dalle compagnie minerarie che osservano con interesse il deposito di bauxite del valore di 2 miliardi di dollari che si trova proprio sotto ad essa.
Niyamgiri è sempre stata fonte di nutrimento fisico e spirituale per i Dongria. Perdere le loro terre a causa di una miniera a cielo aperto significherebbe perdere i loro mezzi di sostentamento e la loro unica identità di popolo, perché l’estrazione mineraria finirebbe con il distruggere le loro foreste e alterare il corso dei loro fiumi. Siamo il popolo della montagna. Se dovessero portarci altrove, moriremo.
Nel 2014 i Dongria hanno vinto una battaglia alla Davide e Golia contro l’apertura di una miniera nelle loro colline, ma coloro che hanno fatto resistenza alla miniera subiscono ancora una campagna di violenze da parte della polizia che li sottopone a molestie e intimidazioni.
Dove potremmo andare noi bambini? Come potremmo sopravvivere? ha chiesto un giovane Dongria Kondh pensando alla minaccia di dover lasciare la sua casa. No, non la cederemo. Non cederemo mai la nostra montagna!
Nella foto: un ragazzo Dongria Kondh, Orissa, India.
© Jason Taylor/Survival
La maggior parte dei popoli tribali ha una visione della vita a lungo termine; nel prendere le decisioni quotidiane tiene conto della salute futura dell’ambiente e del benessere delle generazioni successive.
Se vogliamo proteggere le vite dei bambini tribali dall’oppressione, dallo sfruttamento e dal razzismo, i governi e le società che oggi violano i loro diritti devono adottare modalità di pensiero parimenti sostenibili e guardare ben oltre l’immediato tornaconto politico e commerciale.
I successi recenti – la riapertura del pozzo d’acqua dei Boscimani in Botswana, per esempio, e la vittoria dei Dongria Kondh sulla Vedanta in India – dimostrano che le questioni tribali sono sempre più dibattute nelle arene politiche e culturali. Ma resta molta strada da fare. Le tribù sono ancora vulnerabili, soprattutto perché le loro terre restano altamente ambite. Hanno urgente bisogno che le persone di tutto il mondo si uniscano al movimento di Survival e sostengano la sua strenua lotta a farli riconoscere come uguali.
I popoli indigeni vogliono un mondo in cui i bambini siano liberi di vivere sulle loro terre secondo uno stile di vita liberamente scelto. E questo processo può cominciare solo con il riconoscimento di due diritti umani fondamentali: quelli alla terra e all’autodeterminazione.
Non pensate sempre a voi stessi o Capi,
e nemmeno alla vostra sola generazione.
Pensate alle generazioni che verranno,
ai nostri nipoti
a coloro che non sono ancora nati,
e i cui volti stanno per sorgere dalla terra.
Pacificatore, Confederazione degli Irochesi, USA
Nella foto: bambini Aborigeni, Pitjantjatjara, Australia.
© Alastair McNaughton/www.desertimages.com.au
In Malesia, i bambini Penan aiutano a costruire le abitazioni utilizzando alberi giovani e foglie di palma gigante; sotto la superficie azzurro-verde del mare delle Andamane, i bambini Moken imparano a catturare dugonghi, granchi e cetrioli di mare con lunghe fiocine; in Mongolia, i bambini Tsaatan apprendono le antiche tecniche di pascolo dai loro genitori radunando le renne nelle praterie.
I bambini indigeni sono gli eredi dei loro territori, di lingue e visioni del mondo uniche; sono i depositari umani della conoscenza degli antenati.
© Livia Monami/Survival
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