Le due facce della conservazione

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Una versione inglese originale di questo articolo è stata pubblicata
con il titolo “When Conservationists Militarize, Who’s the Real Poacher?” in Truthout il 9 agosto 2015.

“Contrasteremo il bracconaggio, uccideremo qualche cattivo e faremo qualcosa di buono.” Magnifico! Chi potrebbe avere qualcosa da ridire sulle parole della cacciatrice di bracconieri Kinessa Johnson? Apparteneva alla VETPAW, una milizia fondata da un ex-marine per dare lavoro ai veterani del dopo 11 settembre. Pagata con le donazioni della gente, la VETPAW manda i veterani in Africa per “sottrarre fondi” al terrorismo. Ci guadagnano tutti: si dà lavoro ai veterani, si tagliano i finanziamenti ai terroristi, si salvano gli animali e si spazzano via i cattivi. Ovviamente, partendo dal presupposto che il bracconaggio finanzi il terrorismo. Dunque è lei, Kinessa, il volto della conservazione moderna?

La rinascita del “militarismo verde” va ben oltre un’organizzazione no-profit americana. Si tratta di una “rinascita” perché l’ambientalismo armato non è una novità. Nel XIX secolo, quando negli Stati Uniti furono creati i parchi nazionali, la cavalleria per prima cosa esiliò i Nativi Americani che vi vivevano e vi cacciavano, e poi allontanò gli altri “bracconieri”. A dare vita al movimento conservazionista furono sostanzialmente facoltosi cacciatori di trofei, che volevano impedire l’uccisione delle “loro” prede da parte dei locali affamati. L’idea bizzarra che i cacciatori di trofei siano i migliori conservazionisti rimane diffusa ancora oggi, e il termine “bracconieri” continua a essere usato per indicare solo gli “altri” cacciatori, di cui i conservazionisti si vogliono sbarazzare.

L’industria della conservazione dipinge il proprio lavoro come una guerra da combattere con determinazione. È comprensibile: l’ambiente sta avendo la peggio. I bracconieri sono descritti come criminali organizzati e sofisticati che alimentano depravazioni come il traffico di droga e il terrorismo. Anche questo è comprensibile; organizzazioni come il WWF (Fondo Mondiale per la Natura) – che raccoglie circa 2 milioni di dollari al giorno – hanno bisogno di offrire ai propri donatori messaggi semplici. Ma la vignetta classica dell’eroe contro il cattivo non racconta tutta la storia.

Esistono certamente bande di bracconieri, e organizzazioni come la VETPAW potrebbero contrastarle efficacemente, ma questa metafora militare è utile, specialmente ora che i conservazionisti stanno ricorrendo sempre più spesso a soldati veri?

La popolazione locale, compresi gli indigeni del luogo, è stata a lungo considerata come un “ostacolo” alla protezione dell’ambiente. Sono stati definiti “bracconieri” e hanno subito abusi di conseguenza. I “Pigmei” Baka in Camerun, i Boscimani in Botswana e le tribù Adivasi in India vengono picchiati, se non peggio, da chi afferma di proteggere la natura. E la situazione non migliora.

Le Nazioni Unite e BirdLife stanno finanziando in Botswana un imponente progetto da 26 milioni di dollari. Tra gli obiettivi c’è anche il “bracconaggio di sussistenza” – ovvero, per usare altre parole, persone come i Boscimani che cacciano per sfamarsi. Progetti bigotti e autocelebrativi come questo fomentano ostilità tra le loro numerose vittime, e per i conservazionisti è un problema crescente. Mantenere al proprio fianco la popolazione locale dovrebbe avere la massima priorità, specialmente se si tratta di popoli che hanno vissuto in quei territori per generazioni e che conoscono l’ambiente meglio di qualunque ambientalista. Ma quel che accade è esattamente il contrario.

Persone innocenti vengono criminalizzate costantemente, anche ricorrendo a sfacciate menzogne. Per esempio, quando il Presidente del Botswana sfrattò i Boscimani dalle loro terre ancestrali, nel 2002, il governo e i suoi intimi – inclusi alcuni membri del Parlamento britannico – andavano ripetendo fino alla nausea che la tribù cacciava “da camion” con armi ad “alta velocità”. Alla fine, gli stessi funzionari ammisero in tribunale che era tutta un’invenzione: i Boscimani cacciano con lancia o con arco e frecce per nutrire le proprie famiglie, e non minacciano la sopravvivenza della fauna selvatica. Tuttavia, i conservazionisti elogiano il presidente del Botswana, il Generale Khama (membro del consiglio di Conservation International) per aver recentemente emesso un divieto di caccia a livello nazionale, in modo del tutto incostituzionale. Si tratta di un ennesimo tentativo di sbarazzarsi dei Boscimani anche se il divieto si applica a tutti, tranne che ai cacciatori di trofei, ovviamente! I ricchi bianchi – sono quasi sempre bianchi! – pagano per sparare praticamente a qualsiasi cosa; i cacciatori africani neri, invece, sono arrestati, picchiati e uccisi.

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Il Botswana è una delle tante mete turistiche in cui è stata adottata la politica “dello sparare a vista”. Quando le guardie forestali uccidono i “bracconieri”, verificare i fatti è impossibile. I ranger sostengono sempre di essere stati attaccati per primi, e nessun superstite può affermare il contrario. Tuttavia, a volte i rapporti compilati dalle guardie stesse dipingono un quadro in forte contrasto con quello delle bande pesantemente armate di cui ci parlano.

Per esempio, pochi mesi fa, l’Autorità dei Parchi dello Zimbabwe ha riferito di una banda composta da tre uomini che avrebbe aperto il fuoco contro le guardie nel Parco Nazionale di Matusadona con una “pistola di grosso calibro”. Le guardie hanno subito ucciso due di loro, mentre il terzo fuggiva. L’elenco dei reperti raccolti dai funzionari consisteva in un fucile .303, sette caricatori di proiettili, una pentola per cucinare e un po’ di carne di bufalo come quella servita nei ristoranti di tutta l’Africa.

Il fucile .303 non è una “arma di grosso calibro”; è un antico fucile della fanteria britannica, comparso per la prima volta non meno di 120 anni fa e utilizzato dalla polizia e dall’esercito nelle ex colonie britanniche fino a qualche decennio or sono. Se il bracconaggio è così redditizio come si sostiene, questa “banda” avrebbe potuto certamente dotarsi di qualcosa di più moderno e di molti più proiettili. Non si è trattato di un incidente isolato: nel 2014 due uomini sono stati uccisi in Zimbabwe, nel Parco Nazionale dello Zambesi, senza che siano mai state trovate né armi né munizioni. Secondo i parenti, le vittime erano disarmate e stavano raccogliendo legna. Dopo un altro episodio simile, accaduto di recente, alcuni soldati del Botswana sono stati accusati di aver simulato un reato posizionando delle zanne vicino ai corpi di tre uomini a cui avevano sparato. Le testimonianze di racconti simili stanno aumentando. E il fenomeno non riguarda solo l’Africa. 

Sembra che nei pressi del Parco Nazionale di Kaziranga, in India, i locali siano pagati per fornire informazioni sui bracconieri. Se a seguito dell’informazione viene poi ucciso qualcuno, l’informatore riceve fino a 1.000 dollari di compenso: una piccola fortuna per i locali e un grande incentivo per la delazione. Secondo l’esperto di fauna selvatica locale Firoz Ahmed, “A volte noi… conosciamo i piani (dei bracconieri) prima che agiscano… e vengono uccisi”. In altre parole, delle persone verrebbero giustiziate in modo extragiudiziale sulla base di una segnalazione da parte di terzi (con interessi economici personali nella vicenda), secondo cui era stato progettato un crimine contro gli animali. Le guardie, dal canto loro, godono di immunità penale.  

Molti conservazionisti occidentali sono favorevoli alle misure estreme. Per quanto li riguarda, per esempio, se c’è motivo di pensare che vi siano persone a caccia di elefanti, esse meritano soltanto di essere fucilate senza esitazione.

C’è più di una contraddizione in tutto ciò: anche i cacciatori di trofei uccidono regolarmente gli elefanti, in modo legale! Quando in Camerun fu rubata la terra ai Baka per istituire le “zone protette”, il WWF giocò un ruolo importante nella spartizione del territorio, che accanto ai parchi nazionali comprendeva anche concessioni per i safari di caccia e per il taglio del legno. La potentissima organizzazione non governativa ignora fermamente ogni richiesta di rendere pubblici i documenti che mostrerebbero a cosa ha dato il suo appoggio e sostiene, in modo completamente falso, che i Baka avevano dato il loro consenso a essere privati delle proprie terre.  

In effetti, i conservazionisti traggono utili dalla caccia ai trofei, come ha ignobilmente dimostrato un’asta dello scorso anno, durante la quale un membro del Club Dallas Safari si aggiudicò per 350.000 dollari il diritto di uccidere in Namibia un raro esemplare di rinoceronte nero, una specie minacciata di estinzione. Il club è oggi membro a pieno titolo della IUCN (International Union for the Conservation of Nature), partner del WWF.

Gli stessi conservazionisti cacciano elefanti. In alcuni luoghi potrebbe avere senso.

Sembra che nel Parco di Chobe, in Botswana, ci sia un numero di elefanti sette volte superiore al sostenibile, con una catastrofica perdita di biodiversità vegetale e animale. Ora che i tradizionali cacciatori tribali sono stati quasi completamente spazzati via dai regolamenti ambientali, permettere che la creatura terrestre più grande del pianeta si moltiplichi senza controllo è una pessima strategia per l’ambiente.

Questa ipocrita doppia faccia della definizione di “caccia” e “bracconaggio” è ben esemplificata da Geoffroy de Gentile Duquesne, un impiegato della compagnia spagnola Mayo Oldiri, incaricato di gestire una concessione per la caccia sportiva in una “area protetta” del Camerun. Fra i suoi clienti vantava il sud africano Peter Flack, cacciatore di elefanti della foresta, anch’essi classificati come specie in pericolo. Descrivendo la sua costosa avventura, risalente al 2012, Flack scrive che voleva assicurarsi una “pelle intera” per “motivi d’esposizione”. Mentre altrove, confondendoci, commentava “Solo un miope e stupido criminale caccerebbe animali minacciati”. Dopo aver ricevuto, sei anni prima, il premio di “cacciatore dell’anno” dalla Confederazione delle Associazioni di Caccia del Sud Africa, l’ex magnate minerario è divenuto membro del consiglio del WWF (trustee).

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Ma c’è ancor peggio. La guida di Flack non solo aiutava i ricchi cacciatori a uccidere grandi animali nella sua area “protetta”, ma ha anche ucciso un presunto bracconiere (ovviamente, a sua detta, per “autodifesa”). In altre parole, alcuni conservazionisti uccidono sia gli elefanti sia i cacciatori di frodo di elefanti.

Questo ci riporta alle radici storiche della conservazione: il tentativo di impedire ai poveri di cacciare per nutrirsi, lasciando la selvaggina esclusivamente ai ricchi. Il termine “bracconiere” si sta estendendo: viene usato non solo per indicare i fuorilegge organizzati e ben pagati, ma anche i popoli tribali che cercano di sfamare le loro famiglie, e qualche funzionario incaricato di fermare il bracconaggio. Ma include anche coloro che finanziano il terrorismo, così come ci viene spesso ricordato dai sostenitori delle politiche dello “sparare a vista”?

Rosaleen Duffy della London’s School of Oriental and African Studies ha studiato la questione approfonditamente. Ha scoperto che questa idea ha avuto origine da un solo e singolo articolo, facente riferimento a un gruppo terroristico, al Shabaab, in Somalia. Era stato scritto da Nir Kalron e Andrea Crosta, direttore della Elephant Action League, e pubblicato sul sito web di tale organizzazione nel 2012.

Gli scrittori raccontano di aver avuto il loro “primo incontro” con i bracconieri in un hotel di Nairobi. “Seguire la pista dell’avorio di al Shabaab in Somalia ha richiesto l’assistenza di coraggiosi Somali del posto”, scrivono gli autori, lasciando intendere che si erano recati in Somalia anche se, in realtà, non lo affermano mai esplicitamente. Come ci si potrebbe aspettare, i loro informatori sono anonimi, e non c’è modo di controllare se la loro storia sia vera.

L’articolo è zeppo di espressioni ipotetiche: “potrebbe essere”, “forse”, “magari” e così via, tuttavia a un certo punto viene fornito un dettaglio concreto: i bracconieri hanno detto loro che l’avorio fornisce ad al Shabaab tra i 200.000 e i 600.000 dollari al mese. L’enormità della cifra l’ha subito trasformata in un mantra conservazionista. Facendo una media di questi importi, al Shabaab riceverebbe dal bracconaggio circa 5 milioni di dollari all’anno. Nello stesso articolo, Kalron e Crosta scrivono poi che quest’attività “potrebbe fornire fino al 40% dei fondi necessari per mantenerli attivi.” Ma queste cifre sono vere e hanno senso?

Si pensa che al Shabaab riceva centinaia di milioni di dollari da diverse fonti: da “tasse” e riscatti riscossi dai porti di mare; dai governi simpatizzanti; da aziende internazionali di proprietà somala e persino, ipoteticamente, da organizzazioni per la cooperazione e dalle Nazioni Unite, che pagano tangenti in cambio di protezione (la loro liquidità proviene, ovviamente, dai contribuenti occidentali). Cinque milioni di dollari all’anno sono tanti (il WWF ne raccoglie altrettanti ogni due o tre giorni), ma è interessante che equivalgano solo al 12% del reddito che le Nazioni Unite stimano che questi terroristi accumulino ogni anno dalle sole “tasse”, una sola delle loro numerose fonti di reddito.

Se anche l’articolo avesse ragione nell’affermare che il denaro del bracconaggio finanzia in parte al Shabaab, anche “noi” la finanziamo, attraverso le tangenti e le bustarelle pagate dalle Nazioni Unite, dalle agenzie di cooperazione internazionale e dai governi.

Qualunque sia la verità, è d’obbligo sottolineare che Rosaleen Duffy non è riuscita a reperire nessun’altra fonte sul presunto collegamento tra bracconaggio e terrorismo, e che questa fonte è stata scritta da qualcuno che ha interesse che i conservazionisti ingaggino i paramilitari.

Nir Kalron, l’autore principale, è infatti un ex “commando d’élite” che gestisce la Maisha Consulting, con sede in Israele. Fornisce paramilitari e addestramento armato e, insieme al Ministro degli Affari Esteri di Israele, collabora con il WWF e la Wildlife Conservation Society (un tempo New York Zoological Society). Ovviamente è disponibile parecchio denaro per combattere il terrorismo, e Kalron è sicuramente un fermo esecutore. Come egli stesso sottolinea, “È chiaro a tutti che non siamo dei filantropi appartenenti a qualche associazione no profit che chiede educatamente alla gente di prendersi cura dell’ambiente”.

Se prendiamo per buone le cifre di Kalron, allora bloccare il commercio dell’avorio di al Shabaab intaccherebbe solo leggermente il budget dei terroristi. Ma questi numeri sono reali? Né le Nazioni Unite né l’INTERPOL, per esempio, credono che al Shabaab riceva somme significative dal bracconaggio.

Prima di preoccuparsi per i terroristi, che sono fuori dal suo controllo, l’industria della conservazione dovrebbe bloccare le attività criminali che lei stessa finanzia, come gli abusi contro i cacciatori indigeni. Dopotutto, rubare le terre agli indigeni e arrestarli, picchiarli e torturarli (o peggio), finirà sicuramente con il danneggiare anche l’ambiente.

È tempo per l’industria della conservazione smetta di parlare di diritti umani e che inizi ad applicarli realmente. È ora che riconosca il suo passato, con trasparenza. E che smetta di considerare le critiche come un attacco da respingere a suon di pubbliche relazioni. Fino ad allora sarà difficile immaginare che il suo lavoro possa avere un impatto positivo durevole, mentre non c’è alcun dubbio che al momento stia facendo del male a gente innocente. 

© Survival International 2015

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